La notte in cui tutto divenne gourmet (QUANTI EINAUDI 37) by Sara Porro

La notte in cui tutto divenne gourmet (QUANTI EINAUDI 37) by Sara Porro

autore:Sara Porro [Porro, Sara]
La lingua: ita
Format: epub
editore: EINAUDI
pubblicato: 2023-12-01T12:00:00+00:00


Le cucine degli altri.

Per alcune cucine nazionali, la strada verso il gourmet è spianata. Per altre, il percorso è piú accidentato. Una regola di base per intuire quale tradizione gastronomica abbia chance di venire «elevata» è la seguente: è una cucina «etnica»? Quando qualcuno ha cominciato a far notare la velatura razzista dell’aggettivo la replica è stata che era un termine neutro, utilizzato al posto di «internazionale». In questo argomento ho sempre intravisto un po’ di malafede: nessuno si sognerebbe di definire etnica la cucina francese; ed è abbastanza evidente come l’espressione si applichi alle cucine dei paesi non occidentali. Questi ristoranti sono nati per servire la comunità di immigrati – eritrea, peruviana, filippina, ovviamente cinese – a prezzi popolari. Identica storia, cinquant’anni prima, era stata quella delle trattorie: a Milano la trattoria di pesce era storicamente un appannaggio dei sardi, moltissime erano quelle toscane, pugliesi, siciliane.

La cinese è stata la prima cucina straniera con cui gli italiani abbiano preso familiarità a partire già dagli anni ’80 e ’90. Altre sono seguite, e nei primi anni 2000 è cominciato il boom del sushi: alcuni ristoranti giapponesi d’autore avevano aperto in Italia già negli anni ’80, ma il fenomeno avrebbe assunto dimensioni considerevoli solo piú avanti.

Il ristorante «etnico»23 era generalmente un posto dove spendere poco: in particolare a Milano si è sottratto a lungo all’inesorabile aumento del costo di mangiare fuori. Se da un lato questa sua caratteristica lo ha reso di successo, dall’altro ha contribuito a creare un’equazione di valore tra la cucina della nazione e il costo medio degli scontrini; al punto che proposte collocate in fasce di prezzo differenti hanno a lungo faticato. Nei primi anni ’10, a Milano, hanno aperto un certo numero di ristoranti cinesi di fascia alta, spesso accolti con freddezza: un conto da cinquanta-sessanta euro al ristorante cinese? Poco sembrava importare che gli ingredienti impiegati – grandi pesci, crostacei, manzo – avessero un costo importante, e che ambiente e servizio fossero molto distanti dallo standard senza fronzoli delle trattorie di via Paolo Sarpi.

I ristoranti si sono adeguati in vari modi. Alcuni hanno scelto una proposta che un italiano potesse riconoscere piú facilmente come gourmet: come Gong, i cui piatti firma includono un raviolo d’oro24 con ripieno di ragú di ossobuco, «adagiato» (le loro parole, non le mie) su crema di risotto allo zafferano; e un raviolo farcito di Wagyu con crema di foie-gras e tofu «perfezionato» (come sopra) da una lamella di tartufo. Queste scelte testimoniano anche un’altra difficoltà: la lingua dell’alta cucina non è un esperanto, e gli stessi ingredienti che sono considerati l’apice della raffinatezza in Cina sono ignoti – o addirittura guardati con sospetto – qui in Italia: come l’abalone, che in Cina è l’equivalente dell’ostrica, mentre agli italiani ricorda un lumacone di mare25, e quindi possiede attrattiva limitata. Per presentarsi come gourmet, tocca inserire gli ingredienti che un italiano considera tali, anche se non appartengono alla tradizione gastronomica di riferimento: e allora foie-gras, tartufo, e di nuovo il Wagyu, ormai promosso a standard della carne di pregio.



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